Giulia Niccolai

 

I due eserciti si fronteggiano:
l’uno, rimasto invisibile per millenni,
tornato alla luce da pochi decenni,
avanza imponente in colonne ordinate.
Li, sotto l’immenso hangar che lo
protegge, l’“Esercito di terracotta”
si deposita — nell’occhio della mente —
come la grandiosa, inarrestabile
marcia dell’umanità. Ma la sacralità
di questa immagine esige tempo
per maturare. Noi lì, comparse
in carne e ossa, troppo immerse
nel presente, noi visitatori vocianti
e accaldati, noi tutti, troppo attuali
e sventati per intuire il nostro
legame col passato, e apparire simili
a loro: dignitosi, saggi e compassati.

 

 

Avamposto Mongolo

Qui, a nord di Datong, la Grande Muraglia
non è di massicci lastroni di pietra, merlata
e ben tenuta come nei pressi di Pechino,
non ha l’aspetto di castello o di fortezza.
Abbandonata a se stessa, è solo una fuga
di gialli dossi  d’argilla che si rincorrono
tra campi di mais e di patate: gobbe
di cammelli disegnate da un bambino.
Qui da mezz’ora, sul sedile posteriore
di un taxi rosso e sgangherato, appollaiato
in cima a uno dei dossi con vista sulla valle
e sul villaggio contadino — un tempo avamposto
mongolo — ascolto divertita, senza capire una parola,
le reciproche confessioni che si fanno
— in cinese — l’autista e l’interprete iscritta
al Partito. Rido, rido tra me e me perché
la dinamica della vita ha scelto di mostrarmi
proprio qui, come quel mitico, universale
immaginario della Grande Muraglia e della Cina
— che alimenta la mia mente da più di cinquant’anni,
assieme alla giovanile passione per l’avventura,
all’aspirazione per qualcosa di grande e di
sconosciuto, per qualcosa di alto e mai vissuto,
con Ulisse e Marco Polo quali eroi preferiti —
possa materializzarsi in una situazione
tanto comica e alla mano, da farsi vivere
come una  scampagnata fuori porta
coi suoi riti socievoli, rilassati e miti:
gazzosa, merenda, chiacchiere, amici

 

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